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Tra i 20 e i 30 anni, i drammi identitari dell’adolescenza appaiono lontani, ma altrettanto lontani appaiono quelle mete di adultità determinate culturalmente: un ruolo lavorativo, una coppia stabile, un progetto generativo. Le difficoltà socioeconomiche insite nel raggiungimento di queste mete sono ormai note, ma da un punto di vista psicologico, cosa distingue il giovane adulto?

Se l’adolescente è impegnato nella costruzione di un’identità che senta come autentica e che gli permetta di sperimentarsi positivamente nella socialità tra coetanei, il giovane adulto spesso sente il bisogno viscerale di trovare “il proprio posto nel mondo”: professionalmente, socialmente e sentimentalmente. Questo bisogno, è tanto sentito come vero e personale, quanto determinato dalla realtà socioeconomica in cui viviamo; spesso è difficile tracciare una linea netta di confine.

Un altro aspetto che li differenzia è il rapporto con i genitori: l’adolescente scopre che i propri genitori non sono degli dei onnipotenti, ma esseri umani fallibili. Una volta digerita questa amara scoperta, lo step successivo prevede che il giovane adulto si guadagni una nuova autonomia, psichica ed economica, dai genitori.

Ogni categoria avrebbe quindi dei “compiti evolutivi” ben precisi ma la realtà appare molto più fluida, motivo per cui alcuni giovani adulti rimangono impigliati in temi più adolescenziali. 

Anche a livello sociale, capita spesso di rilevare come queste due categorie condividano spesso passioni, gusti musicali, riferimenti culturali.  Se dunque non è più possibile utilizzare dei riferimenti esterni, che cosa determina il passaggio all’adultità? E soprattutto, cosa intendiamo per “essere adulti”?

Da un punto di vista psicologico, si ipotizza che possa essere “la capacità di essere genitori di sé stessi” e la “capacità di autodeterminarsi ed esprimere a pieno la propria soggettività”: certamente due capacità complesse e che vanno costruite giorno dopo giorno. 

 

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